lunedì 11 giugno 2012

Recensione: Prometheus (2012)

Prometheus (Prometheus) - Ridley Scott (2012)

Ridley Scott è tornato al genere fantascientifico ed era ora aggiungo io. Per quanto mi riguarda, l’hype attorno Prometheus è stato enorme: tutti quei trailer e tutte quelle featurette mi hanno ucciso lentamente nell’attesa di vedere finalmente il film. Film che poi sinceramente parlando si è rivelato una mezza delusione, purtroppo.

Prometheus non è un brutto film, sia chiaro, ma è uno di quei film che lo finisci di vedere e non sai se ti è piaciuto o meno. Una parte di te dice che è bello perché dopotutto è firmato Ridlay Scott, legato all’universo di Alien e con protagonisti Charlize Theron, Noome Rapace e Michael Fassbender, ma l’altra parte di te, quella che è soffocata dalla fantascienza di Scott & co. sa benissimo che in realtà il film è abbastanza mediocre.

L’idea di base della ricerca dei creatori dell’umanità, di questi engineers, fino agli angoli remoti della galassia e di ricollegarli all’universo di Sigourney Weaver è un qualcosa che ha fatto bagnare sicuramente le lenzuola a più di qualche nerd. Peccato però che tutta la storia sia stata sviluppata in modo molto sbrigativo senza soffermarsi troppo su nessun particolare e impedendo di fatto allo spettatore di immergersi completamente nelle vicende. Peccato poi che tutti i personaggi siano stati appena delineati, quelli principali compresi: la Theron, sbandierata a destra e a manca come una delle protagoniste del film, dice una manciata di battute se va bene e si limita a guardare da distante cosa fa il suo equipaggio di cui non ricordo neanche i volti a momenti. Peccato ancora che si sia cercato di farla fuori dal vaso inserendo dei colpi di scena assolutamente prevedibili. Peccato infine proprio per la fine (Damon Lindelof, tu si che ne sai!) che ha sbrodolato tutto per lasciare aperta la possibilità ad un eventuale sequel.

Riassumendo, dall’inizio del film lo spettatore potrebbe chiedersi cos’è la Weyland Industries, chi è il signor Weyland, chi sono questi benedetti ingegneri, perché hanno creato noi umani. Alla fine del film a nessuna di queste domande viene data risposta. Quindi perché fare tutto questo ambaradan di film? Neanche questa domanda ha risposta, curiosa come cosa.

Menzione d’onore però per gli effetti speciali e per tutto il resto. Guardare gli ambiente della Prometheus, del  tempio degli engineers e le varie forme aliene è stato veramente un piacere per gli occhi!





Una variante di questa recensione è stata pubblicata anche su Cineblog.


mercoledì 25 aprile 2012

Recensione: Hunger Games (2009)


Hunger Games (The Hunger Games) - Suzanne Collins (2009)


Mi sono ritrovato a leggere The Hunger Games dopo aver letto recensioni entusiaste a destra e a manca, tra cui anche quella di un certo signor Stephen King. Quello che ho pensato appena finito il primo capito del romanzo è stato cosa si è fumato King per aver detto che questo libro “dà assuefazione”? probabilmente roba di qualità.

Io non sono un particolare amante del genere Young Adult, ma dopo aver letto che c’erano adolescenti che si dovevano uccidere tra loro ho pensato che forse, in questo caso, avrei anche potuto spendere 14,90 euro. Il gioco valeva la candela? Assolutamente no.

La banalità
THG è un romanzo dispotico, ambientato in un futuro non ben definito in cui al posto degli Stati Uniti d’America, adesso c’è una nazione totalitaria chiamata Panem. Panem è formata dalla capitale Capitol City che governa con pugno di ferro i dodici distretti circostanti. Per punire un precedente tentativo di ribellione dei distretti avvenuto anni prima, sono stati istituiti gli Hunger Games in cui da ogni distretto, ogni anno, vengono prelevati un ragazzo e una ragazza e costretti a uccidersi a vicenda finché non ne rimarrà soltanto uno. Il tutto in diretta TV. Qualcuno ha detto Battle Royale o 1984? No? Devo aver sentito male allora.
La protagonista è la tosta sedicenne che ne sa un casino la mia scuola è la strada Katniss, che vive di stenti nel Distretto 12 e che si trova a partecipare come tributo agli Hunger Games per salvare la sorella più giovane. Assieme a lei c’è il coetaneo e panettiere del villaggio Peeta, inutile dire che già a pagina 132 arriva la melassa.

L’stile che non c’è
Il romanzo è scritto in prima persona al presente e la cosa all’inizio mi urtava non poco perché mi pareva di leggere un libro del Battello a Vapore per bambini delle elementari. Ma magari fosse stato un libro del Battello a Vapore! Lo stile con cui scrive la Collins è una cosa orrenda. Le cose vengono ripetute in maniera ridondante: il Distretto 12 è il più povero e la gente muore fame, l’abbiamo capito! Capitol City è brutta e  cattiva, l’abbiamo capito! Katniss è brava con l’arco, l’abbiamo capito! Forse ha voluto ripetere questi e altri concetti ogni dieci pagine perché se no il romanzo era troppo breve?  Per me è sì. 
I personaggi, colpa (o merito?) dell’unico point of view nel libro, sono tutti evanescenti e appena accennati. Basti pensare ai tributi degli altri undici distretti, che vengono menzionati poco o nulla; questo dovrebbe facilitare il lettore a provare empatia per Katniss o per Peeta visto che sono gli unici con un minimo di spessore, ma neanche questo accade visto che Katniss sembra piena del mondo e l’altro parla di pane tutto il tempo. 

Tirando le somme, The Hunger Games è un romanzo mal scritto con però un alto potenziale sfruttato in maniera mediocre.





mercoledì 13 luglio 2011

Recensione: Mawaru Penguindrum - 01 - The Bell of Fate Rings

Dopo quasi dodici anni di assenza dalle scene dell'animazione, ecco che rispunta il nome di Kunihiko Ikuhara, ovvero colui che ha creato uno degli anime più psichedelici  che abbia visto: Shoujo Kakumei Utena - La Rivoluzione di Utena (oltre che aver diretto la terza stagione di Sailor Moon, che diciamocelo, era la migliore).

In questo primo episodio si viene introdotti in una storia che sembra assolutamente canonica: due fratelli Shouma e Kanba e la loro sorellina Himari, di salute cagionevole e gravemente malata, vivono da soli poiché i genitori sono morti e cercano di ritrovare la felicità di un tempo nelle piccole cose di ogni giorno, come ad esempio il fare colazione tutti assieme. Per festeggiare la sorella, viene indetto l'Himary Day e  i tre fratelli decidono di andare all'acquario tutti assieme. Qui Himari collassa e muore poco dopo in ospedale. Tutto sembra ormai perduto, se non che Himari resuscita di punto in bianco e guarisce miracolosamente dalla sua malattia. Si scoprirà che a compiere il miracolo sono stati tre pinguini che vogliono mettere in atto, attraverso i tre fratelli, un misterioso piano per la sopravvivenza.

Kunihiko Ikuhara è tornato i grande stile e lo si vede eccome! Già prima della sigla di apertura, ma anche più avanti nella storia, assistiamo a dialoghi che vertono sul senso del destino e sul significato dell'esistenza di Dio, temi che sono molto cari al Ikuhara e che ha già analizzato più volte nelle sue opere. Per concludere alla fine ci viene regalato un bacio tra fratello e sorella molto incestuoso che ci porta all'altro tema caro a Ikuhara: l'incesto, appunto.

Nota: particolare è anche la realizzazione tecnica che vede molti stacchi su mappe,  percorsi, cartelli della metropolitana, come se si volesse richiamare il tema delle strade e delle automobili di Utena.

A questo episodio do 4 e mezzo, perché per ora è uno degli anime che promettono di più di questa stagione.

venerdì 8 luglio 2011

Favorite quotes #01: Code Geass

- C.C.: Volere la morte è la provvidenza di questo mondo. In fin dei conti, la vita è un limite.
- Lelouch: Non è vero, la vita esiste perché siamo vivi.
- C.C.: E' la stessa cosa, le persone sono coscienti della vita perché esiste la morte.
- Lelouch: Questi discorsi sono giochi di parole!
- C.C.: Forse. Ma le persone muoiono.
- Lelouch: Allora, secondo te, il significato della nostra esistenza...
- C.C.: Dovresti saperlo, non è altro che un'inutile illusione.
- Lelouch: Una vita che esiste solo per finire?
- C.C.: Il persistente non morire non è certo vita. Diciamo che è un accumulo di esperienze.
~ Code Geass R2 - Episodio 15

lunedì 27 giugno 2011

Recensione: Puella Magi Madoka Magica (2011)

Puella Magi Madoka Magica (Mahou Shoujo ★ Madoka Magika) - Akiyuki Shinbo (2011)

Madoka e la sua migliore amica Sayaka sono due studentesse delle medie e un giorno vengono avvicinate da uno strano essere di nome Kyubey che propone loro di esaudire un desiderio e in cambio loro devono diventare delle ragazze magiche e combattere le streghe per il resto della vita. Homura, una ragazza magica, vuole impedire loro di stipulare il contratto perché non è lo strano essere non avrebbe detto tutta ciò che questo dovrebbe comportare, nel bene e nel male.

La scelte si fanno per veder realizzati i nostri desideri più grandi, e queste scelte richiedono dei sacrifici che costano fatica ed energia, ma questo è secondario finché c’è la speranza. Quando però la speranza viene meno e le scelte fatte un tempo appaiono sbagliate, il gioco vale ancora la candela?

In Puella Magi Madoka Magica, il mondo viene visto come pervaso da sofferenza, disperazione e sogni infranti. Qui il bene non vince sempre e la ragazze magiche non combattono per la salvezza del mondo dal male assoluto. Infatti a ben vedere, i concetti di bene e male sono molto sfumati e dipendono dai punti di vista: il genere umano col proprio alternare emozioni positive a emozioni negative e pagando con la vita, può contribuire ad evitare la morte termica dell’universo, ma questo è negativo solamente a seconda del punto di vista dal quale lo si vuole guardare. Se si è una giovane ragazzina delle medie che è costretta a sacrificarsi a sua insaputa è certamente un male, un inganno, ma se si è una creatura di un altro mondo che non ha alcuna empatia con gli umani e che ha come scopo solamente salvare l’universo, la cosa è vista più positivamente. 

Il mondo non è un posto sempre pieno di gioia di vivere, ma è destinato a soffrire a causa proprio della natura emotiva dei suoi abitanti e non può  essere salvato. Il destino che ci aspetta, il nostro futuro non possiamo cambiarlo, neanche avendo poteri magici per tornare indietro a correggere i nostri errori. Il bene e il male non ci sono nella forma che ci hanno sempre insegnato, ci sono solo contratti da rispettare, decisioni prese e da prendere che possono rivelarsi sbagliate e portare a conseguenze nefaste. Questo è quello che viene ribadito in ogni puntata, e non è che metta proprio allegria.

Questo anime così fuori canone e così triste ha un impianto tecnico notevole, soprattutto per quanto riguarda le ambientazioni che vanno da spazi aperti e ampi e pieni di vetrate trasparenti da cui si vede un paesaggio limpido e sereno, a spazi angusti, scuri, cupi, quasi burtoniani, rappresentati come disegni di un bambino poco dotato, che lasciano trasparire inquietudine e sogni infranti. Lo stesso vale per i nemici, le streghe, sono raffigurate come un qualcosa di indefinito, che cambia costantemente forma, come d'altronde lo è il male stesso.

Il riferimenti al Faust di Goethe sono moltissimi, basti pensare alle scritte sui muri che rimandano a interi passi dell’opera. La citazione però più evidente la si trova nel personaggio di Kyubey che agisce come un moderno Mefisofele, offrendo a deboli ragazze una speranza in cambio della loro anima per l’eternità. Le stesse caratterizzazioni delle ragazze magiche fanno riferimento ai vari aspetti del carattere di Faust.

A voler ben guardare, c’è anche un richiamo lontanissimo alla struttura classica della fiaba, ovvero principe-strega-principessa: le streghe che combattono le maghette ricoprono, ovviamente la parte della strega, che si nutre delle emozioni negative delle persone e le spinge a compiere atti estremi con la manipolazione; Kyubey stesso poi  è una sorta di strega, che cerca di convincere in tutti i modi deboli ragazzine a sottoscrivere un contratto con lui in cambio di un’apparente felicità; le ragazze magiche sono dei principi quando combattono le streghe ma sono anche delle principesse da salvare sotto l’effetto di un incantesimo.

Promosso a pieni voti, è in arrivo per Dynit.





lunedì 20 giugno 2011

Recensione: Thor (2011)

Thor (Thor) - Kenneth Branagh (2011)

Premetto che io i film dei supereroi me li sono guardati praticamente tutti, anche se dal trailer si sapeva già che erano brutti. Thor per fortuna non rientra in questa categoria, anzi.

Finalmente si sono decisi a fare un film su Thor! Giubilo in tutto il reame! Thor penso sia uno dei supereroi più fighi dell’universo Marvel, non solo perché è appunto un supereroe, ma perché è anche una fottutissima divinità. Ma andiamo con ordine.

Come nella migliore mitologia norrena, Thor è il figlio arrogante, invasato, presuntuoso, wannabe hero di Odino e il fratello di Loki, molto più riflessivo, calmo e con un leggero complesso di inferiorità. Quando la pace di Asgard viene compromessa e il regno dei giganti di ghiaccio minaccia guerra proprio per causa di Thor, questo viene esiliato sulla Terra e privato dei suoi poteri divini. Qui Thor incontra la bellissima e intelligentissima ricercatrice Natalie Portman Jane Foster e dopo molte vicissitudini se ne innamora (e vorrei anche vedere!). Ad Asgard intanto Loki ha preso il posto del padre morente e medita di distruggere l’odiato Thor e la terra con essa, così il nostro dio dovrà cambiare se stesso per poter salvare padre e patria.

Lo script di questo film è stato curato in prima battuta da Michael Straczynski, curatore di fumetti come Fantastic 4, Spider Man e lo stesso Thor, e sceneggiatore del bellissimo Changeling di Clint Eastwood. In alcuni aspetti la sceneggiatura è un po’ distante dal fumetto originale, per esempio Thor non ha una doppia natura umana/divina, ma rimane un dio per tutto il film con tutto ciò che ne consegue e viene mostrato moltissimo riguardo il regno di Asgard, con tutti e suoi personaggi e le sue dinamiche interne. Questo però a favore di una migliore cinamatograficità del soggetto. 

I personaggi sono molto spesso solo appena accennati e  poco approfonditi, è vero, ma probabilmente perché faranno un seguito e ce li ritroveremo tutti assieme nel prossimo The Avengers di Joss Whedon l’anno prossimo. Nonostante ciò si può dire che Chris Hemsworth è un ottimo Thor, possente e ironico quanto chiede il personaggio, Tom Hiddleston è un Loki ambiguo e che speriamo di rivedere presto, Natalie Portman è una Jane Foster perfetta e brava e bellissima come sempre e Sir Anthony Philip Hopkins ormai è come il prezzemolo e ce lo ritroviamo dappertutto perché ha le rate della villa da pagare, ma è un prezzemolo di classe.

Per finire una nota sul regista: Kenneth Branagh non è un tipo da blockbuster sui supereroi, ma ha sempre diretto film del calibro di Hamlet e Henry V tratti dalle tragedie di Shakespeare. Questo si vede anche nel film, in cui le scene d’azione sono girate sembra un po’ forzatamente rispetto alle altre. 

In conclusione gli do tre pallini e mezzo +.

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venerdì 17 giugno 2011

Recensione: The Mist (2007)

The Mist (The Mist) - Frank Darabont (2007)


Stephen King e Hollywood vanno a braccetto ormai da anni con produzioni che vanno dallo scadente all’ottimo. The Mist di Frank Darabont (Il Miglio Verde, The Walking Dead) è l’ennesimo film tratto da una delle sue opere (il racconto La Nebbia contenuto nella raccolta Scheletri) ed è stato uno dei migliori film del 2007, nonostante da noi sia uscito vergognosamente con due anni di ritardo.

Dopo una tempesta violenta la ridente cittadina di Dridgton, nel Maine, viene completamente avvolta da una fitta nebbia che cela creature mostruose e carnivore che costringono un gruppo di abitanti a barricarsi in un supermercato e a lottare per sopravvivere.

Amanda Dunfrey: You don't have much faith in humanity, do you?
Dan Miller: None, whatsoever.
Amanda Dunfrey: I can't accept that. People are basically good; decent. My god, David, we're a civilized society.
David Drayton: Sure, as long as the machines are working and you can dial 911. But you take those things away, you throw people in the dark, you scare the shit out of them - no more rules. 

Nonostante il budget abbastanza limitato (18 milioni di dollari), il film riesce benissimo. Si può dire che questo sia un film perfettamente kinghiano, cioè sfrutta situazioni claustrofobiche, atmosfere orrori fiche e paurose per far emergere il lato più intimo dei personaggi. Oltre all’analisi dei personaggi, si analizza (o si vuole tentare di) anche l’intera società, che in un momento di crisi non è in grado di agire compatta e organizzata: ci si rifugia negli integralismi religiosi, nelle divisioni, nel leaderismo. Tutto ciò condurrà inesorabilmente a una spirale discendente di violenza e orrore, che terminerà con il tentativo di fuga, peraltro inutile, dei cinque protagonisti.

Ollie Weeks: What's going on?
Mrs. Carmody: It's death.

Le creature lovecraftiane, provenienti da un altro mondo non sono mai mostrate completamente, fatta eccezione per alcune. Si sa che sono là fuori, nascoste, ma non si sa come sono fatte, dove sono, cosa stanno facendo; è questo mostrare/non mostrare aumenta notevolmente il livello di tensione, perché nulla è più pauroso dell’ignoto e soprattutto dell’ignoto che dentro di sé nasconde la morte.

Sì può vedere anche un richiamo palese all’opera tanto cara a Stephen King Il Signore delle Mosche di William Golding, che è stato uno dei primi ad criticare una fiducia troppo cieca nella tecnologia e a vedere come il male e il peccato portino a un disfacimento graduale di qualsiasi società civile. Male e peccato, in King come in Golding, sono da intendersi non come concetti religiosi, ma come corruzione ad opera della società che l’uomo stesso poi conduce alla rovina.

Menzione d’onore poi va fatta anche alla scena finale letteralmente da brividi, sia per la regia che per la musica scelta: l’agghiacciante The Host of Seraphim dei Dead Can Dance.

Consiglio anche a voi di perdervi due ore nella nebbia e guardare questo film.